La recensione di Anna Pascuzzo, docente di Lettere e Filosofia e cofondatrice di Scritturarte, Associazione culturale di lettura e scrittura creativa.
Prima di entrare nei meandri del romanzo “Subway”, desidero dire a chi legge che ha il privilegio di avere davanti a sé una scrittura magistrale, una narrazione “per palati buoni”. Davvero bravi i nostri autori Ciro Pinto e Rossella Gallucci.
Ebbene, è la sineddoche il centro del racconto, la “parte per il tutto”, quella meravigliosa figura retorica che ci veniva spiegata al Liceo (lo scrivo maiuscolo perché, chi come me ha frequentato il Liceo Classico, lo scrive ancora così, con la maiuscola appunto, anche dopo vent’anni). Ed è la maiuscola che rappresenta i luoghi nei quali i personaggi si muovono. Ai nomi propri di persona la maiuscola è conferita di diritto (è la grammatica italiana che ce lo impone), ma i luoghi descritti qui, pur non essendo nomi “propri” di città, hanno la maiuscola e sovente l’articolo davanti ad introdurli e a fare di essi un’antonomasia: Lo Snodo, La Subway, Il Presepio, La Sirena, La Montagna, L’Acqua, La New Entry…
Si descrive dunque la “parte per il tutto”, una “parte” di mondo che non piace a nessuno, che nessuno vede ma c’è, una “parte” delle persone che non diventano mai “personaggi” (seppure la finzione che ispira il romanzo così vorrebbe rappresentarceli), una “parte” di un luogo, una città vivace e solare che affaccia sul mare ma della quale si sceglie di descrivere la “parte” (appunto) più buia, senza sole perché senza cielo. Si descrivono persone, tante, tantissime, alcune anonime, coreografiche, altre hanno la dignità di un nome pur mancanti, in apparenza, della dignità umana.
Sembra dunque un romanzo che parte dalla “parzialità”, ma questa “parzialità” descritta nella sua totalità ci rivela intere vite, storie strambe, arcani che nessuno immagina o dei quali a nessuno sembra importare.
La parola “parzialità” è centrale nel romanzo, come la sineddoche che descrivevo prima. Ma qui “parzialità” va tradotta anche con il significato ben espresso dal suo sinonimo: “ingiustizia”.
Un impianto letterario potente, non solo per la bella scrittura (dalla quale si evince il talento), ma anche per la tecnica usata, (dalla quale invece si evince lo studio, l’impegno, il mestiere).
Subway è quello che i nostri occhi vedono ma non si fermano mai a guardare. Subway è la puzza dei “barboni”, è il fastidio della loro vicinanza in metropolitana, è il senso di nausea che abbiamo quando quei maledetti vagoni sono strapieni e noi abbiamo fretta e siamo costretti a urtare, nostro malgrado, contro qualche derelitto. Subway è tutto quello che noi non vorremmo mai accanto. Eppure è lì, davanti a noi (sotto di noi).
Subway è un romanzo, un giallo psicologico, un racconto di vite, è una rivelazione agli occhi abbagliati dalla luce artificiale, ad occhi che non vedono più. Subway ci dice, senza farci troppi sconti, che c’è un mondo dietro ogni essere umano, finanche quando quell’umano è un derelitto, Subway ci dice che c’è un mondo perfino dietro un cane.
Subway parla con le voci di Coriandolo (Beatrice), di Omero, di Stella, di Millie, di Gionata, di Paolo Maria, di Kostas, di Alberigo , di Silvia… e perfino attraverso le smorfie e le “leccate” del fedelissimo Argo. Subway racconta queste persone, ne sceglie la “parte” più malamente rappresentata, quella nella quale quelle persone sono pervenute, sono finite dopo dolori e sofferenze inenarrabili. Sono uomini e donne non fragili ma “frante”, frantumate cioè da esperienze di violenza, di abbandono, incuria, solitudine, discriminazione. Chi li vede non scorge le loro vite, non intravede il loro passato, la bellezza che ha fatto parte delle loro infanzie o adolescenze, la “normalità” nella quale vivevano, i loro affetti, le famiglie, i loro amori. Chi se li trova davanti, mentre percorre di fretta le scale, i sottopassi di una metropolitana (subway), non pensa nemmeno che quella gente maleodorante e sozza, abbia avuto una vita normale, come tutti.
Tendiamo ad avere sempre una visione “parziale”, a non farci domande, a non pretendere risposte, riteniamo di vivere meglio chiudendo gli occhi, le orecchie, voltandoci semplicemente dall’atra parte. Subway è invece una sberla in piena faccia, una di quelle date con la mano bene aperta, il lettore ne è investito in pieno, fin dalle prime pagine e, una volta preso il cazzotto, non può più tirarsi indietro. E’ quello che fa Alberigo, ad esempio, che andrà fino in fondo alla sua “indagine”, sarà quel che farà la bella Silvia, lei che per caso porta un nome “importante”, e sarà quel che farà Paolo Maria, il Beethoven della Subway.
Tutti i personaggi ci condurranno nelle loro esistenze, ma non lo faranno prendendoci per mano, no, stavolta non avremo un tappetino rosso, una strizzata d’occhi, una lusinga da parte di chi scrive, ma saremo spintonati, a volte anche con violenza, perché ciascuno di noi possa entrare davvero in quelle vite, perché diciamocela tutta, se Ciro Pinto e Rossella Gallucci non ci avessero scaraventati nella Subway, noi avremmo di corsa preso un altro treno.
Grazie di cuore per averlo fatto.
Anna Pascuzzo