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Angelicamente

Chi di noi non vorrebbe un angelo che si prenda cura di lui?
Al di là della sua valenza religiosa, l’angelo rappresenta la nostra intima esigenza di poter contare su una protezione.
Qualcuno in cui confidare, che possa assisterci, che possa darci una mano per rialzarci ogni volta che la vita ci spinge giù. Nel nostro immaginario gli angeli sono quasi sempre esseri sovrannaturali, espressioni estreme dei buoni sentimenti, figure nelle quali sublimiamo tutte le nostre aspettative. Per rimanere alle cose terrene, senza scomodare la fede, io penso che gli angeli siamo noi, sì, noi uomini, quando riusciamo ad interpretare nel modo più sublime quel poco di buono che abbiamo dentro.  E penso anche che il più grande angelo sia stato Gesù, che per me è stato soltanto un uomo, un grande uomo, che è riuscito quasi sempre a comportarsi da Angelo.

Eppure, spesso, mi piace immaginare che qualcosa d’improvviso scardini questa mia convinzione. Che un angelo vero possa apparire al mio cospetto. È quello che immagino nel primo racconto, Angelo, appunto. Qualcuno che ci possa ridare speranza anche nei momenti più bui della nostra vita.
In fondo, però, ognuno di noi può rappresentare una protezione per un’altra persona, e questa è davvero una cosa molto bella, difficile però da interpretare. Spesso, anche senza volerlo, tradiamo le aspettative degli altri che ci hanno eletto a questo ruolo così impegnativo. Ho cercato di parlarne in Odore di campagna.
A volte siamo noi a vedere spuntare le ali in qualcuno che per noi rappresenta un rifugio, un solido e accogliente approdo. Come il nonno del protagonista de Il trampoliere rosa.
Infine con Quel lunedì piovoso ho voluto sottolineare come ognuno di noi possa avere sentimenti buoni e nobili, anche quando proprio non sembra possibile. Certo, se poi un angelo viene a darci una mano…

Quel lunedì piovoso è un racconto inedito, Odore di campagna è pubblicato in e-book con Oakmond Publishing, gli altri due sono pubblicati nelle antologie dei concorsi letterari dove sono stati premiati.

Questi quattro raconti sono stati scritti all’incirca cinque o sei anni fa.

Ecco il quarto:

Quel lunedì piovoso

Bè, padroni di credermi o meno, ma ciò che sto per raccontarvi è semplicemente la verità.
E comunque m’importa davvero poco di essere preso per matto, ci sono abituato.
Fatto sta che una settimana fa io ho visto un angelo, e ho parlato con lui.
È successo mentre andavo in fabbrica, quella mattina che la buttava giù di santa ragione, che pareva che la terra si fosse rivoltata e il mare le crollasse addosso.

Avevo portato Gongo da mia madre, di buon’ora come sempre. Il mio pincher nano odia stare da solo, quando succede mi fa mille dispetti, morde tutto quello che trova all’altezza del suo muso. Dal filo del carica batterie del cellulare alle scarpe e a tutta la roba che lascio in giro. Perciò lo porto dalla vecchia e lo lascio finché non torno dal lavoro.
Una donna ti ci vuole, ché hai quasi quarant’anni, altro che questo animaletto. Non sei in grado di badare a te stesso, figurarsi a tenere un cagnolino così, bisognoso di mille attenzioni. Non le rispondo mai, mi limito a succhiare il caffè dalla tazza che lei mi porge stizzita, poi un grugnito e vado via.
Forse ha ragione, in fondo non sono un granché. Donne e soldi non li ho mai saputi trattenere, mi scivolano dalle mani come anguille.
Ma non voglio parlarvi di me, so già che non vi piacerei, nemmeno un po’.
Torniamo a bomba, a quella fottutissima mattina piovosa.

Avevo parcheggiato il mio spiderino giusto davanti all’entrata del palazzone dove mia madre vive arrancando con la pensione del vecchio che ha tirato le cuoia qualche anno fa. L’avevo sistemato sotto la tettoia per evitare che prendesse altra acqua. Lui è perfetto, rosso fiammante con la capote nera. Lo curo come un figlio. Ci sono salito, ho messo su la radio, l’ho sintonizzata sulla stazione demenziale che da un po’ di tempo mi attizza e mi mette di buon umore. Ho preso la via laterale, quella che dopo un paio d’incroci porta direttamente sulla provinciale. Una decina di chilometri e poi l’avrei vista, la mia maledetta fabbrica.
Mettiamo etichette su tutto quello che si vende, persino sulle tazze dei cessi. O meglio, lo fanno le macchine, noi stiamo a guardare che tutto proceda, che i nastri non si fermino o s’inceppino.
Un lavoro del cazzo. Però ci campo, male ma ci campo.

Lunedì della settimana scorsa, sì, questo è il giorno di cui vi parlo.
Vivo nell’hinterland di una grossa città, in un appartamentino uguale a tutti gli altri, in un rione dormitorio, dove tutti si svegliano presto e tornano tardi. Dove l’immondizia sborda dai bidoni perché è sempre troppa, le aiuole sono calve e persino gli alberi non fanno ombra.
C’è una birreria a due isolati da casa mia, la domenica sera ci faccio le ore piccole a vedere la partita sul maxischermo e a gonfiarmi di birra come un otre. E quella domenica c’ero restato più del normale, e dopo la birra avevo ingoiato anche un paio di bicchierini di vodka, faceva freddo.
Insomma, quel lunedì mattina la pioggia martellava sulla capote del mio spiderino e dopo la sbornia della sera precedente sentivo ogni goccia penetrarmi nella testa. Avevo le meningi strette come in una morsa e il collo rigido come un palo di ferro.
Un bel modo d’iniziare la settimana.
La provinciale era diventata come il letto di un fiume, e l’acqua che inondava il parabrezza era tanta che i tergicristalli quasi piangevano.
Quello della radio parlava della pioggia e farneticava di come potesse essere una scopata sotto tutta quell’acqua, all’aria aperta. Diceva stupidate ma erano divertenti, mi faceva ridere, Però a ogni risata le meningi stringevano di più e il collo si straziava attorno al palo di ferro.
Me lo sono visto davanti, così all’improvviso, come se fosse apparso dal nulla. Un tizio tutto incerato su uno scooter. Non so cosa gli sia preso, forse l’acqua cominciava a spaventarlo. Avrà frenato di botto, ricordo soltanto l’abbaglio rosso del freno sulla ruota posteriore, poi l’ho schiantato.
La moto ha fatto un balzo in avanti, poi è ricaduta e lui ci è finito sotto.
Cazzo, m’è preso un tremito. Mi sono guardato intorno, non c’era nessuno, eppure a quell’ora la provinciale di solito è affollata da mille disgraziati che come me vanno a guadagnarsi il pane.
Ho accostato cinquanta metri più avanti. Ho guardato nello specchietto retrovisore. Erano sempre là, sul ciglio della carreggiata, lo scooter ribaltato sopra la sagoma del motociclista nella sua incerata nera.
Che faccio? Non c’è nessuno. E se non fosse successo? Forse me lo sono immaginato, con quel cazzo di speaker alla radio e la pioggia che veniva giù come cascata. Non è vero, non è successo, mi sono detto per rassicurarmi.
Ma loro erano sempre là, immobili.
Ho rimesso in moto, stavo per ingranare la marcia, poi ho cominciato a piangere e a bestemmiare, e ho fatto retromarcia.
Nei due sensi non passava un’auto, come se fossi in un deserto, piovoso, ma un deserto.
Mi sono fermato a un metro dal tipo con l’incerata e sono sceso. L’acqua mi entrava nelle orecchie, nel collo e inzuppava i vestiti. Lo scooter era pesante, come un macigno. Non sono riuscito ad alzarlo. Allora mi sono chinato sul motociclista. La visiera s’era spaccata, e sotto, il viso era insanguinato. Era un ragazzo, almeno così pareva. Non muoveva un centimetro in tutto il corpo.
Mi è ripreso il tremito.
Ho guardato la strada: niente, non c’era anima viva.
Me ne vado, cazzo, me ne vado. Ma non riuscivo a muovermi.
Mi sono abbassato fino alla sua bocca, non sentivo nulla, nemmeno il fiato.
È morto, Cristo Santo, è morto. Che faccio? Che faccio? Sentivo l’acqua gelida scorrermi giù per il collo fino alle natiche. Ero là, sotto quel diluvio, con il ragazzo accasciato per terra, su una strada incredibilmente deserta, e mi sentivo una merda.
Omicidio colposo, mica lo volevo ammazzare. Forse in galera non ci vado. Continuerò a fare la mia fottutissima vita, tra fabbrica, Gongo e le ramanzine della vecchia.
E se mi fottono? In fondo sono un disgraziato, un operaio del cazzo, sfigato e buono a niente.
Non c’è niente da fare, quelli a cui va bene, che se ne fregano e se la cavano sempre sono altri, non io di certo. Forse è meglio togliersi di torno, ho pensato. Ma poi non ce l’ho fatta.
Prendo il cellulare, chiamo la Stradale, e li aspetto seduto nel mio spiderino, mi sono detto con una voce che non pareva la mia.
Allora il tizio ha alzato un braccio e mi ha bloccato.

È qui che mi darete del matto, lo so.
Eppure è la verità.
Bene, mi direte, allora era vivo. Penserete che non sono stato nemmeno capace di verificarlo, vero?
Ma lui non respirava, di questo sono sicuro. Due corsi di salvataggio mi avranno pure insegnato qualcosa, no?

«Non chiamare nessuno», mi ha detto in un soffio che pareva un lamento.
L’ho guardato, aveva il viso insanguinato sotto la visiera spaccata, era ancora immobile, steso su un fianco.
Gli ho chiesto come si sentiva, se aveva dolore. Lui ha sorriso, è scivolato via dal motorino ribaltato, si è messo a sedere e poi si è alzato, da solo.
Ho cercato di fermarlo, quando si ha un incidente non bisogna mai muoversi, potrebbe essere pericoloso. Questo ho sempre saputo e questo gli ho detto.
Ma lui ha sorriso di nuovo. Ha rialzato lo scooter come se fosse un fuscello, ha messo la mano sotto la visiera, che ora era di nuovo integra, l’ha passata sul viso e il sangue è scomparso.
Allora è davvero un incubo, non è successo, ho gridato. Ma lui mi ha subito smentito: il viso è tornato a sanguinare sotto la visiera tutta spaccata.
«È successo, amico mio, per davvero. Hai avuto solo la fortuna d’investire me, e poi la tua coscienza ha fatto il resto.»
Non capivo, avevo solo voglia di fuggire via, di prendere un caffè dalla mia vecchia, farmi leccare la faccia da Gongo, o di bere una dannata birra.
Lui ha sorriso ancora. I miei occhi spalancati e il viso stralunato che mi rendevano ancora più brutto di quello che sono gli avranno fatto pena, e allora s’è fermato, ha tolto il casco, ha scosso la chioma di capelli biondi. Il viso era di nuovo pulito, nessuna traccia del sangue. Era una ragazza, bella, molto.
«Non sono come tutti voi. Non vivo e non muoio. Sono come una specie di angelo, per intenderci. Ogni tanto metto alla prova qualcuno. Tu te la sei cavata, amico mio. Bravo!»
Non c’era un centimetro del mio corpo che non fosse inzuppato d’acqua, la scena era irreale: una bionda, che a guardarla mozzava il fiato, che farneticava di angeli e roba del genere. La provinciale deserta come un eremo. L’acqua che non smetteva di scendere.
«Sto impazzendo», ho urlato di nuovo, portandomi le mani sul viso.
«No, è tutto vero. Ora vado. Appena avrò messo in moto lo scooter, la vita riprenderà come sempre. Perciò, affrettati a toglierti di lì, che qui tra un attimo sarà l’inferno.»
«Aspetta, Angelo, o come cavolo ti chiami, dimmi solo perché?»
«Te l’ho detto, una prova. Hai avuto la possibilità di scappare, non c’era nessuno. Un po’ ci avevi pensato, vero? Ma poi, non ce l’hai fatta. E questo mi basta. Ciao, dà un bacio a tua madre e a Gongo.»
E se n’è andata, ha inforcato lo scooter, ha messo in moto ed è scomparsa in un attimo.
Poi, d’improvviso, la provinciale si è riempita di auto, qualcuno mi suonava e mi mandava all’inferno, qualcun altro per poco non mi metteva sotto.
Sono rientrato nel mio spiderino, come un automa ho guidato fino alla fabbrica. Quando sono arrivato ero ormai convinto di avere avuto una visione. Troppa birra ieri sera, mi sono detto.
Appena ho parcheggiato nel cortile, il caposquadra mi si è fatto incontro, aveva la faccia truce, ma via via che si avvicinava il viso assumeva un aspetto diverso.
Si è appoggiato allo sportello, mi ha detto che avrebbe dovuto farmi rapporto per il ritardo, ma non voleva rivoltare il coltello nella piaga.
«Lo so quanto ci tieni a questo catorcio e come lo curi. Bè, mi spiace per l’ammaccatura che hai proprio sul frontalino. Una bella botta davvero, amico mio.»

Ciro Pinto

 

 

 

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