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Angelicamente

Chi di noi non vorrebbe un angelo che si prenda cura di lui?
Al di là della sua valenza religiosa, l’angelo rappresenta la nostra intima esigenza di poter contare su una protezione.
Qualcuno in cui confidare, che possa assisterci, che possa darci una mano per rialzarci ogni volta che la vita ci spinge giù. Nel nostro immaginario gli angeli sono quasi sempre esseri sovrannaturali, espressioni estreme dei buoni sentimenti, figure nelle quali sublimiamo tutte le nostre aspettative. Per rimanere alle cose terrene, senza scomodare la fede, io penso che gli angeli siamo noi, sì, noi uomini, quando riusciamo ad interpretare nel modo più sublime quel poco di buono che abbiamo dentro.  E penso anche che il più grande angelo sia stato Gesù, che per me è stato soltanto un uomo, un grande uomo, che è riuscito quasi sempre a comportarsi da Angelo.

Eppure, spesso, mi piace immaginare che qualcosa d’improvviso scardini questa mia convinzione. Che un angelo vero possa apparire al mio cospetto. È quello che immagino nel primo racconto, Angelo, appunto. Qualcuno che ci possa ridare speranza anche nei momenti più bui della nostra vita.
In fondo, però, ognuno di noi può rappresentare una protezione per un’altra persona, e questa è davvero una cosa molto bella, difficile però da interpretare. Spesso, anche senza volerlo, tradiamo le aspettative degli altri che ci hanno eletto a questo ruolo così impegnativo. Ho cercato di parlarne in Odore di campagna.
A volte siamo noi a vedere spuntare le ali in qualcuno che per noi rappresenta un rifugio, un solido e accogliente approdo. Come il nonno del protagonista de Il trampoliere rosa.
Infine con Quel lunedì piovoso ho voluto sottolineare come ognuno di noi possa avere sentimenti buoni e nobili, anche quando proprio non sembra possibile. Certo, se poi un angelo viene a darci una mano…

Quel lunedì piovoso è un racconto inedito, Odore di campagna è pubblicato in e-book con Oakmond Publishing, gli altri due sono pubblicati nelle antologie dei concorsi letterari dove sono stati premiati.

Questi quattro raconti sono stati scritti all’incirca cinque o sei anni fa.

Ecco il primo:

Angelo

Ricordo che era un giorno tranquillo, uno di quei giorni dove ogni cosa assume contorni sfumati e persino gli spigoli sembrano addolcirsi.
Mi perdevo in pensieri vaghi e seguivo i vapori tenui che dall’erba del giardino s’innalzavano lenti fino a farsi sfibrare dalla carezza dei primi raggi di un sole tiepido e inaspettato, in quel lento sfumare d’autunno nell’inverno ormai alle porte.
Dal punto in cui m’ero messo a sedere potevo osservare i declivi lenti e docili toccare la valle che sotto di me si allargava quasi fino all’orizzonte, potevo contare i pioppi ordinati e silenziosi che spuntavano lungo tutto un lato, proprio a riva di un ruscello vispo e generoso.
Ero solo, con i miei pensieri e con la desolante percezione della mia sofferenza. Ormai, non fremevo più, la costante e silente coscienza della mia situazione era diventata l’unica dimensione che ero riuscito a creare, come un alveolo protettivo, una sorta di gabbia dove potermi crogiolare e rifuggire ogni tentativo di riprendere a vivere.
Quanto tempo era passato? Quante mattine a fissare quella valle, a contare quei pioppi?
Non avrei saputo dirlo o semplicemente non m’interessava saperlo.
Seguivo il volo radente del falco quasi fino a sfiorare i declivi, quasi a cozzarci, per poi librarsi improvviso e splendido in un’impennata soave che mi faceva sognare di emularlo, mi faceva sperare d’innalzarmi dal giaciglio ormai sfatto della mia aberrazione. E come sempre quel sogno, quel semplice e timido anelito, svaniva nella triste memoria di quello che era stato.
L’avevo persa un mattino d’estate, questo sì, lo ricordavo nitidamente. Un mattino dove l’aria invadeva le cose e la luce le trasformava donando riflessi e ombre che parevano plagiarle fino a trasmutarle.
Ero stato felice con lei, non avevo avuto molto dalla vita fino a quando non l’avevo incontrata, fino a quando lei non aveva saldato tutto il credito che avevo accumulato.
Ero stato felice.
Ricordo ancora l’odore dei mirtilli e delle spezie che riempiva la cucina, la sua voce calda e gli occhi sempre accesi in uno sguardo carico di vita.
Ma la persi, per sempre.
Accadde un mattino, l’afa era tale che la valle sembrava sparire, il ruscello stentava a trascinarsi e l’aria immobile pesava tutt’intorno.
Avevo aperto le finestre e lasciato spalancato persino l’uscio di casa, nella speranza di creare un po’ di frescura per alleviare il caldo e donare un po’ di tregua al suo corpo che ribolliva di febbre.
Mi ero girato verso di lei, aveva le labbra screpolate, vi passai un panno di lino umido per darle refrigerio, la sentii gemere e poi tirare un lungo respiro che si zittì all’improvviso.
Da allora i miei giorni passavano davanti ai miei occhi per sparire stancamente dietro le mie spalle, senza che riuscissi mai a dare un senso a nessuno di loro.
La mattina uscivo fuori in giardino e restavo lì ore a chiedermi perché.
Fino a quel giorno di dicembre, in quel tardo autunno dove il sole pareva resistere ad onta della stagione incombente.

Fu un attimo, qualcosa rotolò lungo il costone con un moto irregolare, e s’acquietò a valle, immobile.
Rimasi interdetto, aguzzai gli occhi. Cercai di dare un nome a quell’oggetto, o forse un animale, di capirne le forme, ma non vi riuscii.
Lo guardavo, era sempre lì, tra arbusti secchi e l’erba rada. Scorgevo soltanto che era di due colori, intravedevo l’azzurro e poi il bianco, ma non capivo.
Non sembrava una persona, non ne aveva le fattezze. Era rotolato all’improvviso, senza un grido né un lamento. Avevo solo sentito dei tonfi sordi e poi il silenzio.
Quello stesso silenzio che mi svuotò l’anima dopo il suo ultimo respiro.
Vivevo in un posto sperduto, la mia casa era quasi un eremo, il paese era distante e la valle sotto di me era silente e solitaria.
Quella valle in primavera era tutta un’altra storia, si allietava di grida festose, si riempiva di odori. Allora potevi sentire lo scalpitio della brace sotto arrosti invitanti, vedevi la valle ricoprirsi di tovaglie variopinte e di famigliole venute da fuori a godere della sua luce e della sua erba. Poi, ritornava la solitudine, silente compagna del mio dolore.
Non potevo restare lì a guardare.  Presi un bastone per aiutarmi lungo la discesa e affrontai il dirupo, lungo uno stretto sentiero, impervio e ripido.
Alla fine arrivai a valle, ricordo che mentre avanzavo verso quella figura sentii crescere in me la voglia di raggiungerla, percepivo il mio movimento con tutta la mente, mi pareva quasi di sentire l’aria che m’avvolgeva e mi sembrava di squarciarla.
Mi avvicinai, era immobile, ma vedevo il suo petto muoversi in un respiro regolare.
Aveva le sembianze di un giovane, etereo, con i capelli ricci e biondi. Era vestito di azzurro, ma niente di convenzionale, indossava una tunica. Era riverso su un lato, dalla spalla spuntava un’ala, bianca come l’altra che aveva schiacciata sotto di sé.
Mi sembrò di essere impazzito. Maledissi l’idea di essere andato fin lì. Non sapevo cosa fare.
D’incanto l’ansia svanì come uno stormo di uccelli dietro una collina. Non ero più spaventato, provavo, invece, un senso improvviso di quiete.
Mi chinai sul giovane, il suo corpo era intatto, non c’era una goccia di sangue, nonostante la caduta rovinosa. Gli toccai una spalla. Lui girò il volto verso di me, aprì gli occhi e l’azzurro delle sue pupille mi penetrò nell’anima.
«Chi sei? Stai bene?», riuscii a chiedergli.
Lui sorrise e lentamente si rialzò, era due spanne più alto di me, che non sono un nano, anzi. Aveva le ali, grandi e bianche, e un sorriso dolce.
«Insomma chi sei? Che specie di essere sei?», mi spazientii, ma non riuscivo ad avere paura.
«Volo, sempre! Ma a volte casco, all’improvviso, e nonostante i miei poteri non riesco a evitarlo, perché non dipende da me.»
«Ah sì, e da cosa?»
«Da quelli come te.»
Lo guardai stranito. Non capivo.
«Lo so, stenti a credere ai tuoi occhi e alle tue orecchie, ma è così. Io volo lassù, molto più su di dove può arrivare la tua vista. E cado quando la speranza cade.»
«Bah, non capisco. Tu rappresenteresti la speranza?»
«In un certo senso, sì!»
«E dimmi, perché hai perso la speranza?»
«Sei tu che l’hai persa, che non hai più voglia di continuare a vivere.  La speranza è un bene inesauribile, l’unico patrimonio infinito di cui disponete voi uomini, e non costa niente, eppure spesso non sapete trattenerla.»
«Bah, per me la vita non ha più senso, che cosa dovrei mai sperare.»
«Sbagli, la vita ha senso sempre e comunque.»
«Quindi, vorresti dire che sei caduto perché io ho perso la speranza?»
«Sì.»
Continuava a sorridermi con delicatezza, ma la sua voce era profonda, quasi severa.
«Chi sei? Come ti chiami?», ritornai a chiedergli.
Mi guardò diritto negli occhi, una luce intensa usciva dai suoi.
«Mi sei stato affidato. Sono il custode della tua vita. Sono la tua unica speranza. Mi chiamo Angelo.»

Ho chiuso la casa sopra la valle. Ho raccolto le sue cose, tutte. Alcune le ho con me, altre le ho donate.
Lei avrebbe voluto così. Ora vivo in città. Ho trovato un lavoro e la sera benedico il giorno che verrà.
Lui non l’ho visto più.
Volerà in alto dove non posso raggiungerlo, ma so che guida i miei pensieri, come la speranza accende ogni mio nuovo giorno.

Ciro Pinto

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