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1012segre36La testimonianza di Liliana Segre.

I Vecchi Saggi delle comunità ebraiche ritenevano che nel nostro corpo ci fosse un ossicino, detto luz, capace di resistere a ogni evento e di sopravviverci dopo la morte. È ovviamente una metafora, quell’ossicino non è altro che la possibilità di ogni essere umano di lasciare un segno della sua esistenza. Ognuno di noi ha il suo luz che resterà dopo di lui: un figlio, un’idea, una testimonianza. La grandezza dell’Umanità risiede proprio nella sua capacità di perpetuarsi non solo biologicamente ma anche e soprattutto nella Memoria.

E nei giorni di oggi la Memoria della Shoa è una necessità imprescindibile.

Vorrei parlarvi di Liliana Segre, di Milano.
Orfana di madre, morta quando lei aveva solo un anno, viveva a Milano con il padre e i nonni paterni. La sua unica colpa: avere origini ebraiche.

Le leggi razziali emanate dal regime fascista nel 1938 significarono per lei e per i tanti ebrei italiani l’inizio della sofferenza e dei soprusi.
Liliana fu espulsa dalla scuola.

Dopo l’armistizio firmato da Badoglio l’8 settembre 1943, con l’occupazione nazista iniziarono le deportazioni.
Liliana Segre a soli tredici anni fu deportata ad Auschwitz.

Il baratro orrendo del sopruso e del dolore si aprì improvvisamente sotto i suoi piedi.
Dai suoi ricordi sprazzi di quell’atroce destino:

All’alba del 6 febbraio il treno si fermò ad Auschwitz. Ricordo il rumore osceno e assordante degli assassini intorno a noi, i fischi, i latrati; ricordo i comandi e ricordo quando fui separata per sempre da mio papà. Con altre 30 ragazze italiane, spaurite, stupite da questo destino, entrammo nel grande lager femminile di Birkenau. Era una città fantasma: una distesa senza fine di baracche spaventose. Il primo giorno fummo denudate, rapate a zero e ci fu tatuato un numero sul braccio. Questo numero sostituiva allora il nostro nome, ma è diventato negli anni una parte di me; si identifica per me con il dolore puro, con il violento cambiamento di ruolo che dovetti subire, da figlia a ragazzina disgraziata e sola in un lager.
Imparai in fretta che lager significava morte, fame, freddo, botte, punizioni; significava schiavitù, umiliazioni, torture, esperimenti.
Fui mandata a lavorare in una fabbrica di munizioni che non si fermava mai, perché lavorava per la guerra. Ci facevano marciare cantando fino alla fabbrica e ritorno, al suono della orchestrina delle prigioniere violiniste. Sentivamo sulla strada dei rumori familiari: suono di campane, di aerei di passaggio, ma eravamo dimenticati dal mondo fuori dal campo. Se incrociavamo dei giovani della Hitlerjugend, questi ci sputavano addosso e ci insultavano.

Come tutti gli internati anche la giovanissima Liliana imparò a vivere quell’orrenda condizione. Era come se i sensi e le emozioni si attutissero, come vivere in una sorte di dormiveglia. Questo consentiva loro di sfuggire a una realtà disumana e impossibile da accettare.
Ecco cosa lei stessa dice:

Io tentavo di sdoppiarmi, immergendomi in un mondo irreale e mi sforzavo di non vedere e di non sentire. Di non vedere i cadaveri nudi e scheletriti, ammucchiati in attesa di essere bruciati; di non vedere le punizioni, la fiamma del camino, la neve sporca, i fili spinati percorsi da corrente elettrica. Di non sentire di notte le grida, i fischi, i comandi urlati; i racconti delle altre prigioniere sulle atrocità viste o subite.

Nel 1945 i tedeschi in fuga evacuarono i campi di concentramento, trascinando i prigionieri nell’ennesimo orrendo supplizio: la marcia della morte verso la Germania. Liliana e gli altri sopravvissuti s’incamminarono nella neve, vestiti di stracci, indeboliti dalla fame e dall’internamento, insomma scheletri viventi che solo la speranza riusciva ancora a tenere in vita.
Liliana venne liberata il primo maggio 1945 al campo di Malchow, un sotto-campo del campo di concentramento di Ravensbrück. Tornò a Milano solo nell’agosto dello stesso anno.
Lei ricorda così quel ritorno a casa:

Tornai a Milano dopo mesi, quando gli americani riuscirono a organizzare il rientro, dopo averci divisi per nazionalità. Nell’agosto del 1945 arrivai, in un camion americano in piazza Cadorna. Mi avviai alla mia casa di corso Magenta per vedere se c’era qualcuno dei miei, ma le finestre rimasero chiuse per sempre.

La giovanissima donna, appena tredicenne, è sopravvissuta allo sterminio, al lager di Auschwitz – Birkenau, dove la sua vita era stata catapultata, facendola precipitare in un abisso senza fine.
Eppure ce l’ha fatta.
Da circa dieci anni Liliana Segre è una testimone della Shoa.
Per lei è stato doloroso riprendere dal fondo dell’anima il terrore di quel periodo. Dopo anni e anni spesi inutilmente per dimenticare, Liliana ha deciso di testimoniare, di riaprire il cuore alla sofferenza perché nessuno dimentichi.
Il suo impegno costante la porta in ogni dove e soprattutto tra i giovani affinché la barbarie non abbia più a ripetersi.
Il 27 novembre 2008 l’Università di Trieste le ha assegnato la laurea honoris causa in Giurisprudenza.
Il 15 dicembre 2010 l’Università degli Studi di Verona le ha assegnato la laurea honoris causa in Scienze pedagogiche.
Ma la gratificazione maggiore la riceve scorgendo lo sguardo sgomento dei giovani che ascoltano la sua storia. Nei loro visi commossi ritrova la forza per andare avanti.

Ciro Pinto

 

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