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La recensione

Gli occhiali di Sara, di Ciro PintoTra le righe libri, 2015
Leggendo Gli occhiali di Sara, la citazione d’esordio ci fa subito comprendere che l’autore intende rendere omaggio a istanze della memoria: lo si capisce dall’evocazione di Praga e di Franz Kafka, uno dei massimi scrittori ebrei del ‘900, da parte di un virtuoso poeta italiano, Angelo Maria Ripellino. Praga è città della Repubblica Ceca nei cui pressi è il campo di concentramento di Terezin da cui, col preciso intento da parte dei nazisti di sterminarli, tra il 1941 ed 1945, centinaia di migliaia di prigionieri civili e politici vennero inumanamente trasferiti ai campi di sterminio polacchi di Auschwitz e Treblinka:
“Dal giorno in cui sono uscita da Auschwitz, ridotta ad una larva umana, non sono mai riuscita a liberare il cuore dal filo spinato dei recinti di quel campo. Ho vissuto come un simulacro, ho coltivato le mie sofferenze come piaghe che non seccano mai”.
Dentro a questa cornice si svolge il viaggio soprattutto interiore di Enrico, protagonista del romanzo, la cui storia si intreccia con vite portatrici di memoria: ma è la historia di Auschwitz che fa interrogare Enrico o la storia ignota ad Enrico che si incrocia con quella di Auschwitz?
Leggendo Gli occhiali di Sara ci viene in mente quanto scrive Jan-Philipp Sendker ne L’arte di ascoltare i battiti del cuore: “C’è davvero un destino a cui non possiamo sfuggire? Se non siamo noi i padroni della nostra vita, allora chi lo è?”
Anche Enrico, come l’Edipo del mito e della tragedia greca (Oidípūs significa “dai piedi gonfi”,per l’essere stato trafitto ai piedi da neonato), porta impresso un segno, un lobo mozzato al momento del parto, un destino fisico che gli imprime il codice della memoria e del futuro che rende riconoscibile Enrico dagli altri, anche se solo da chi – come Elisheva, l’anziana e saggia slava “Sfinge” del romanzo – abbia memoria dell’umano.
Enrico passa la sua esistenza proteggendosi dalla realtà con una cabala di numeri da giocatore, una superstiziosa armatura protettiva che diventerà tuttavia anche il codice segreto, il marchingegno che gli servirà per decifrare il suo destino, per giungere alla verità su di sé, attraverso la memoria di una storia collettiva:
“Elisheva citò il 15 marzo del ’39, giorno fatidico dell’invasione e occupazione nazista di Praga: Enrico pensò a quelle due date e a quel numero: 15, lui non lo giocava mai, non gli piaceva, non era un centrale, non aveva la rotondità del venti né la sfacciata apparenza del 17. No, non lo giocava mai”.
Ciro Pinto ci suggerisce che la conoscenza della storia ci riguarda tutti; che l’uomo non può vivere ignorando la storia tenendosene fuori.
Gli occhiali di Sara ci fanno pensare che il peggior abbaglio che possiamo prendere è credere che ci sia possibile tenerci fuori dalla conoscenza storica e dal dolore, protetti dal privilegio di agi, frivolezze, potere e ricchezze, fingendoci che la memoria non ci riguardi, che non sia il compito da assolvere come singoli e collettivamente.

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