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Angelicamente

Chi di noi non vorrebbe un angelo che si prenda cura di lui?
Al di là della sua valenza religiosa, l’angelo rappresenta la nostra intima esigenza di poter contare su una protezione.
Qualcuno in cui confidare, che possa assisterci, che possa darci una mano per rialzarci ogni volta che la vita ci spinge giù. Nel nostro immaginario gli angeli sono quasi sempre esseri sovrannaturali, espressioni estreme dei buoni sentimenti, figure nelle quali sublimiamo tutte le nostre aspettative. Per rimanere alle cose terrene, senza scomodare la fede, io penso che gli angeli siamo noi, sì, noi uomini, quando riusciamo ad interpretare nel modo più sublime quel poco di buono che abbiamo dentro.  E penso anche che il più grande angelo sia stato Gesù, che per me è stato soltanto un uomo, un grande uomo, che è riuscito quasi sempre a comportarsi da Angelo.

Eppure, spesso, mi piace immaginare che qualcosa d’improvviso scardini questa mia convinzione. Che un angelo vero possa apparire al mio cospetto. È quello che immagino nel primo racconto, Angelo, appunto. Qualcuno che ci possa ridare speranza anche nei momenti più bui della nostra vita.
In fondo, però, ognuno di noi può rappresentare una protezione per un’altra persona, e questa è davvero una cosa molto bella, difficile però da interpretare. Spesso, anche senza volerlo, tradiamo le aspettative degli altri che ci hanno eletto a questo ruolo così impegnativo. Ho cercato di parlarne in Odore di campagna.
A volte siamo noi a vedere spuntare le ali in qualcuno che per noi rappresenta un rifugio, un solido e accogliente approdo. Come il nonno del protagonista de Il trampoliere rosa.
Infine con Quel lunedì piovoso ho voluto sottolineare come ognuno di noi possa avere sentimenti buoni e nobili, anche quando proprio non sembra possibile. Certo, se poi un angelo viene a darci una mano…

Quel lunedì piovoso è un racconto inedito, Odore di campagna è pubblicato in e-book con Oakmond Publishing, gli altri due sono pubblicati nelle antologie dei concorsi letterari dove sono stati premiati.

Questi quattro raconti sono stati scritti all’incirca cinque o sei anni fa.

Ecco il terzo:

Il trampoliere rosa

Nonno, te ne sei andato.
Stamattina, mentre ero a scuola, lezione di inglese, terza ora. Le dieci e trenta circa di un giorno splendente, quasi alla fine dell’anno scolastico che mi porterà agli esami di maturità.
Non dovevi farmi questo scherzo. Tu ci volevi venire alla festa per la mia promozione.
Mi è salito un nodo alla gola mentre raccattavo libri e cellulare e sono scappato via dall’aula. Ho preso il motorino, non ho infilato nemmeno il casco. Sono andato via come un matto. In piazza del Popolo ho preso contromano un paio di traverse e sono arrivato a casa.
Erano tutti lì: papà con la tuta da meccanico e gli occhi rossi, mamma con il viso umido di lacrime, e la mia sorellina a frignare. E già qualcuno cominciava a venire a casa, per quel triste pellegrinaggio che comincia quando muore un povero cristiano. Una ghirlanda di fiori, comparsa chissà come, era poggiata alla parete di lato al tuo letto e riempiva la camera di un profumo dolciastro. Te ne stavi ritto e immobile come un corazziere. Sembravi ancora più lungo, tutto rigido e la faccia bianca come un cencio. Papà mi ha messo un braccio sulle spalle e mi ha attirato a sé. Ci siamo abbracciati, lui singhiozzava ed io mi sentivo strozzare, ma di lacrime nemmeno una.
Eppure ti volevo bene, nonno. Un bene dell’anima.
Non ce l’ho fatta a restare a guardarti. Con gli occhi chiusi e le labbra infossate nella bocca senza più la tua dentiera sembravi un altro. Non ce l’ho fatta, nemmeno a sfiorarti. Sono scappato.

Ho corso per un’ora fino a qui.
Ti piaceva questo posto, ci sedevamo proprio dove sono adesso, ti ricordi?
La prima volta ci venimmo io e te da soli, una decina di anni fa. Pantani dell’inferno, mi faceva paura già il nome. Avevi lo sguardo misterioso mentre in macchina procedevi spedito e sbuffavi ad ogni semaforo rosso.
Ci sedemmo, prendesti due panini con caciotta e capicollo, e rimanemmo a guardare muti l’acqua e gli arbusti che ogni tanto si avventurano a interromperne la distesa.
Il trampoliere rosa. Cazzo, non lo abbiamo mai visto, nonno. Non so più quante volte ci siamo venuti, ma di quel benedetto uccello nemmeno l’ombra. Devi avere pazienza, Nico, prima o poi lo becchiamo, vedrai, questo mi dicevi per rabbonirmi ogni volta che mi lamentavo e ti accusavo di prendermi in giro, che ’sto trampoliere tutto rosa era in realtà una bufala che ti eri inventato per farti fare compagnia.

Dei giunchi sottili, di lato all’acquitrino, si smuovono all’improvviso, eppure non c’è vento, nemmeno un refolo.
Tutto è immobile com’eri tu stamattina.

Poi sono cresciuto. Non ci sono venuto più con te al Parco, qui a San Felice.
Ogni tanto mi dicevi che c’era mancato poco per vederlo, il trampoliere rosa. Mi dicevi che la volta successiva sarebbe stata quella buona, che sarebbe stato il caso che venissi ancora. Ma io, niente. Avevo le mie partitine a pallone e qualche ragazzina che mi faceva venire i brividi.

Ora che faccio?
Ora che ero ritornato a parlare con te, ora che… Dai, cazzo, piango, sì, piango, mentre uno stormo di aironi rossi si leva all’improvviso verso il cielo.
È stato un mese fa che mi hai dato quello schiaffo, così forte che mi vennero le lacrime ed ebbi quasi voglia di dartene uno anch’io. Alzai il braccio, oramai ero più alto di te, e tu me ne desti un altro e poi un altro.

Eravamo io e te, da soli. Era il compleanno di Monica, quattordici anni. Stavi a preparare le ciambelle ruzze, che piacciono tanto a mia sorella ed era la cosa che sapevi cucinare meglio. Mio padre in officina e mia madre a prendere Monica a scuola. La cucina era piena di odori. Mamma aveva messo già su la carne, a fuoco lento, e tu ci badavi. Salsicce e broccoli, li facevi amalgamare, al punto che non devi sentire la differenza, che sembra un solo sapore, dicevi a voce bassa, ostinato a parlare con me, muto e schifato di stare là. Stavi facendo anche le ciambelle, e l’olio in padella era già bello caldo quando ti voltasti verso di me e mi dicesti solo una parola guardandomi negli occhi: «Smettila.» Feci finta di niente, misi l’auricolare dell’ipod in un orecchio e me ne andai in garage a rovistare tra i ferri di papà. Volevo stare lontano da te. Tu sapevi. Ogni volta che mi guardavi era come se mi sentissi nudo.
Mi raggiungesti fino al banco degli attrezzi.
«Tuo padre lavora anche qui a casa, a questo banco. Lavora fino a tardi la sera, che credi? Mica si ferma quando torna dall’officina. Che pensi, che mantenere una famiglia sia un gioco? Eh?»
Ti dissi di farla finita con i sermoni, che io non dovevo smettere di fare alcunché. Ti dissi che eri il solito vecchio, sempre pronto a dare consigli e a fare la morale. Tu non te la prendesti, ma mi rifilasti diritto nello stomaco:
«Sei un drogato, un drogato di merda», e mi desti quello schiaffo. E gli altri.
Mamma era ritornata e di là gridava che l’olio prendeva fuoco, mi dicesti di non muovermi e corresti in cucina.

Quest’acqua è così placida, così indifferente, che mi fa rabbia. Sta lì, come se niente fosse successo. E invece te ne sei andato, nonno. Ora che ho pianto, ti sento dentro di me. Ora, sì.

Ritornasti in garage. Anche se non me ne resi conto allora, ti avevo aspettato, sapevo dentro di me che eri la mia unica speranza. Avevo bisogno dei tuoi schiaffi, avevo bisogno di te. E tu ci sei stato, ancora una volta, come sempre.
«Facciamo un patto. Non dico niente ai tuoi genitori, ma tu ora festeggi tua sorella, mangi tutto senza fiatare. Dai rigatoni alla pajata, al supplì e le salsicce, fino alle ciambelle. Tutto. E poi io e te ce ne andiamo al parco e parliamo, intesi?»
Tentai di fare resistenza, ti dissi che non lo avrei fatto, che non avresti potuto costringermi. Ero stufo di quel pranzo sciorinato a ogni compleanno, onomastico e a tutte le feste che Dio mandava in terra. Tirasti fuori la mia busta con l’hashish e due siringhe.

Ti giuro, non mi sono mai bucato. Allora non te lo dissi per orgoglio, ma non mi sono mai bucato. Quelle siringhe, le tenevo per darmi un tono, perché sono un coglione, credimi. Per favore.

Abbassai la testa e ti seguii. Mangiai tutto e risi con voi e mi spellai le mani ad applaudire Monica che spegnava le sue candeline.
Era finita. Avevo ritrovato la mia strada e non vedevo l’ora di seguirti qui. Ci mancavo da anni. Eravamo proprio dove sono adesso.
Mi parlasti di tuo padre, di quando venne giù dal Polesine a bonificare le nostre terre. Dodici ore al giorno a faticare nella melma, un panino italico il solo pasto quotidiano e una zuppa di legumi la sera. La palude era enorme da essiccare, ma lui ci credeva. E qui restò, sposò tua madre, bruna e bella, e qui volle vivere la nuova avventura.
Mi raccontasti della favola di Ninfa, quella con cui mi facevi dormire la sera, quando ero un bimbo che pendeva dalle tue labbra.
Infine mi guardasti negli occhi e ripetesti, questa volta come una preghiera: «Smettila.»

Non ho più toccato uno spinello, da allora. Chissà se avessi iniziato a bucarmi senza quei tuoi schiaffi. Senza quel pomeriggio di un mese fa, passato uno accanto all’altro aspettando il trampoliere rosa, per ore. Mi dicesti che sarebbe apparso, finalmente, a sancire il nostro patto. Ma aspettammo invano.

Ora che non ci sei più ho paura.
E proprio ora che c’è Sara.
Ha gli occhi azzurri e i capelli neri come tua madre. Vorrei uscire con lei, prendere un gelato e girare con il motorino all’infinito, con lei attaccata al mio petto, con il seno schiacciato sulla mia schiena.
Adesso ho paura, nonno. Appena penso a lei, mi viene voglia di fumare, come se senza non fossi capace nemmeno di chiamarla.
Di nuovo gli aironi si alzano in volo facendomi sobbalzare, sembra che scappino.
Li invidio, loro possono allontanarsi da tutto semplicemente sbattendo le ali.
Tremo in tutto il corpo.
Mi tocca tornare a casa.
Mi tocca rivederti nel tuo letto, senza la tua forza, senza il tuo sguardo che mi penetrava le viscere.
Mi alzo infreddolito dall’umidità e con gli occhi rossi di pianto.
Lui è lì, con il suo becco adunco, mezzo giallo e mezzo nero, e le sue piume rosa, incredibilmente rosa.
«Nonno, nonno. Eccolo, eccolo il trampoliere rosa.»

Ciro Pinto

 

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