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Un’altra chance

Lavoro in garage. Tutte le mie notti le passo in guardiola. Ogni sera, abbasso la saracinesca, chiudo la tv, e me ne vado a nanna in una stanzetta duemetripertre che sta giusto dietro la cassa.
Bella vita, vero? Dormo poco ma sono padrone del giorno.
Conosco il cruscotto di ogni auto. I miei piedi hanno saggiato qualsiasi tipo di pedaliera. Ho i polmoni intasati di monossido di carbonio, e i miei occhi faticano una buona mezz’ora per riabituarsi alla luce ogni mattina che risalgo la rampa del garage e mi riaffaccio nel mondo.
Mi posso permettere il lusso di parlare poco, o per niente. I clienti che arrivano dopo le nove di sera non sono molti, e quei pochi non hanno gran voglia di parlare dopo una giornata a sgonfiarsi i polmoni. Così posso limitarmi a dei grugniti e nessuno se la prende, tutti sanno che un garagista di notte non ha granché voglia di fare conversazione.
Come diceva Seneca: Da un uomo grande c’è qualcosa da imparare anche quando tace. Ed io ci credo. Seneca era un dotto e un uomo perbene.
Durante l’inverno, indosso un cappellino di lana. Sì, come quello che metteva De Niro in Taxi driver, ve lo ricordate?
Quando arrivo, il garage è già sgombro di tutte le auto dei clienti giornalieri e di quelle in sosta breve. Restano le mie auto, quelle a contratto annuale, quasi tutte già in fila tra i pilastri e le mura. Le conosco a memoria. So quelle che hanno l’accensione ruvida, quelle che hanno la frizione che slitta.
La station wagon rossa, per esempio, ha uno stereo da schianto, ci ascolto i miei pezzi preferiti: Hey Joe, Mandrake Root e Smoke on the Water, dei Deep Purple. Black Dog e The Battle of Evermore dei Led Zeppelin.
Mitici anni 70, rampanti come il motore del 16 cilindri, nero metallizzato, un coupé da sogno che esce solo il sabato e se ne sta tutta la settimana al calduccio sotto la plastica grigia che ne accarezza le curve.
E dei loro proprietari potrei scriverne la biografia, sicuro. Forse ne so più io della loro vita che loro stessi. So quando escono e quando tornano, e se fanno tardi so anche il perché, quasi sempre.
Mi piace fare le manovre di parcheggio. Le faccio quasi ad occhi chiusi, con il motore sotto pressione e a scatti repentini. Non ho bisogno dei segnalatori acustici, anzi m’infastidiscono perché mi mettono ansia. Io so sempre quando fermarmi e sempre alla stessa distanza dall’ostacolo: massimo due centimetri. Io, la carrozzeria me la sento addosso, ogni pezzo dell’auto è una mia propaggine.
Il mio vanto? Non ho mai urtato né ho fatto il minimo graffio. I miei clienti lo sanno, nei loro occhi c’è rispetto. Ci so fare io con le auto.
E ci sapevo fare anche con gli uomini, almeno fino a quel giorno.
Non facevo il garagista allora, ero un prete di campagna, avevo una chiesetta tutta mia in un paesino affossato in un catino, tra colline verdeggianti e un fiumiciattolo che lo attraversava regalandogli frescura e zanzare.
Ero giovane e ci credevo, caspita se ci credevo. Non indossavo mai la tonaca, ero sempre in jeans e t-shirt, d’inverno c’infilavo su un pullover e anche un giubbotto pieno di adesivi: moto e strumenti musicali. Mi stava bene, sembravo il Fonzie di Happy days. Ero quasi bello come lui.
Ero un buon prete, un po’ fuori dagli schemi, devo dire, ma ero un buon pastore di anime. Avevo sempre attorno una ciurma di ragazzini; le mamme e le nonne erano entusiaste di me, e i loro mariti venivano in chiesa la domenica. Sempre più numerosi.
Non sopportavo la Bibbia, il problema era questo.
No, francamente, tutto quel rimestare vendette e doveri mi opprimeva.
Adoravo il Vangelo invece, aprivo sempre ogni funzione religiosa con una frase dalla I lettera di San Giovanni Evangelista: Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato. E chiudevo sempre allo stesso modo: Chi ama suo fratello, rimane nella luce.
Avevo il catechismo i giorni pari e il calcetto i giorni dispari. La domenica, dopo la messa, la squadra dei miei ragazzi se la giocava con chiunque delle parrocchie vicine. Erano forti i miei ragazzi, erano sempre primi in classifica nel torneo del circondario. E il pomeriggio ascoltavamo i Deep Purple e i Led Zeppelin.
Insomma me la cavavo.
Quando arrivava in visita un parroco di qualche grosso centro della Diocesi, indossavo il mio bravo clargyman, sputavo l’inseparabile chewingum, bagnavo i capelli perennemente in disordine per dargli una piega, e attorniato dai miei ragazzi aspettavo il collega sull’uscio della chiesa. Controllavamo assieme i conti, tra un’esortazione e una benedizione lui mi rifilava le solite raccomandazioni. Poi, finalmente, toglieva il disturbo e subito dopo io rimettevo i miei jeans.
Ci credevo, sì.
Amavo Gesù, lo adoravo.
A volte era un’ossessione. A volte di notte mi svegliavo madido di sudore, di soprassalto. Succedeva quando sognavo quello che non avevo nemmeno il coraggio di pensare, cioè che lui fosse un uomo, soltanto un uomo, come tanti, come tutti. Un grand’uomo, però.
Sognavo che stava lì, sulla croce. Ero sotto di lui, sul Golgota, fuori Gerusalemme. Il cielo cominciava a divenire cupo, mentre la sofferenza sui volti dei tre crocefissi era tale che sembrava trasmutarli.
Gesù mi chiamava con una voce profonda. Io accostavo la scala e salivo. Avanzando, piolo su piolo, vedevo il suo corpo martoriato, il sangue raffermo attorno alle ferite. I muscoli scarni e tesi nello sforzo sovrumano del dolore. Arrivavo fino al suo viso, imperlato di sangue. Mi avvicinavo alla sua bocca. E lui in un sospiro, come una liberazione, mi diceva sempre la stessa frase: Sono un uomo, come te. Tra un po’ morirò, ma se vuoi posso rivivere in te. Mi alzavo e in pigiama correvo in chiesa, m’inginocchiavo all’altare e pregavo, pregavo. Avevo paura, perché sapevo che in fondo era vero, che Gesù era soltanto un uomo, il più grande degli uomini. E allora mi sembrava tutto inutile, tutto terribilmente inutile. Solo la luce del mattino, quando qualche gallo rompeva il silenzio con il suo grido disperato, quando la terra era l’unica padrona di se stessa, riusciva a darmi un po’ di pace. Allora riponevo quel pensiero, lo soffocavo dentro di me.

Ogni tanto pensavo alle donne, sì, ma senza ossessione in questo caso. Mi mancavano le donne, e mi mancava l’amore, quello terreno, quello sensuale. Ma mi pareva giusto pagare quel dazio. Quella privazione era il pegno dovuto per la mia felicità.
Ma un giorno, un tardo pomeriggio d’estate, tra il frinire delle cicale e i versi dei merli, feci l’amore per la prima volta.
Era davanti a me, con la pelle turgida, i capelli arruffati. I vestiti leggeri, aderenti al corpo e umidi per il gran caldo. Gli occhi lunghi e viola, i seni puntuti e le cosce lunghe e affusolate. Era venuta da me per confessarsi. Il matrimonio era previsto dopo pochi mesi. Io stavo preparando lei e il futuro sposo a quel sacramento. Mi disse che era schiava di una passione morbosa, una passione insana. Temeva di non riuscire più a sposarsi. Le dissi di stare tranquilla, che era normale avere quelle paure prima di un passo così importante.
Lei mi rispose soltanto che la sua passione morbosa ero io.
Facemmo l’amore in camera mia.
Da allora non ritrovai più la mia serenità.
Un velo cupo di tristezza e di colpa cominciò ad annebbiare la mia vista. Ero scontroso e furtivo. Le mamme e le nonne della parrocchia mi guardavano preoccupate. Qualcuno degli uomini cominciò a non venire più a messa. E la squadra dei miei ragazzi dopo qualche domenica perse il primato nel torneo.
La notte sognavo cose terribili, scene sguaiate e peccaminose. A volte ritornava il sogno del Golgota e quando Gesù mi chiamava, non riuscivo a salire quella maledetta scala. Finivo ogni volta per terra, raggomitolato ai piedi della sua croce, come un verme.
Lei tornò con il suo fidanzato altre due volte per gli incontri programmati. Il suo viso era purpureo per la vergogna. Io mi parlavo addosso, parole vuote ed estranee, mentre un fremito di desiderio mi sconvolgeva la carne.
Fu di mattina, quasi all’alba, che mi avvisarono: la ragazza si era impiccata.
Corsi a prendere i paramenti sacri per darle l’estrema unzione. Ma non li indossai. Scappai dal retro della sagrestia.
Scappai dal paesino e dalla mia vita.

Ho parlato tanto in passato. Da prete facevo addirittura le prediche. Poi per anni ho cercato di dimenticare e ho cominciato a parlare sempre meno. La notte non riuscivo più a dormire, perché i miei sogni mi facevano paura. Vagavo tra le strade delle città come un barbone. Dormivo poco, sotto i portici o sulle panche. Non sentivo più né il freddo né il caldo. Mangiavo alle case della carità ogni due o tre giorni. Leggevo il Compendio di Teologia ascetica e mistica, di Adolfo Tanquerey, il padre sulpiziano. In particolare leggevo e rileggevo il capitolo V: Lotta contro le tentazioni. Lo facevo con la stessa inutilità e lo stesso accanimento con cui si accarezza un morto. Con la stessa disperazione. E la frase di Sant’Agostino, dal libro decimo delle Confessioni, mi rimbombava nella mente: Così concluderemo le tentazioni della concupiscenza carnale, che ancora mi assalgono, mentre gemo e desidero essere rivestito della mia abitazione celeste.
Fu un calvario che durò dieci anni, un girovagare continuo con un macigno in petto e il cappio dell’angoscia al collo.
Poi finalmente cominciai a sopravvivere e mi trovai un lavoro.
Ho lavorato come muratore in una grande città. Salivo sulle impalcature più alte, mai un tremito né una vertigine. Ero l’invidia di tutti i miei compagni. Come fai? Mi chiedevano quasi con rabbia. Semplice, pensavo, non me ne frega niente di morire.

Pioveva a dirotto, quel giorno. Un manicotto si era tranciato all’undicesimo piano di un grosso edificio che stavamo costruendo. Occorreva richiuderlo perché ci passavano i cavi della corrente elettrica. Con l’acqua poteva saltare tutto. E l’acqua scendeva giù all’impazzata e il vento la spingeva in ogni direzione. Nessuno era così pazzo da salire fin lassù, pioveva tanto da offuscare la vista e il vento faceva traballare le tavole dell’impalcatura. Nessuno aveva idea di quando avrebbe smesso. Salii tra le imprecazioni del capo mastro, non voleva saperne di un morto sul lavoro. Mi maledisse e mi licenziò seduta stante mentre ero ormai quasi in cima. Se caschi, non ci riguarda. Sei licenziato, capito? mi gridava da giù in continuazione, tentando di tenersi il cappuccio che il vento strattonava con dispetto.
Arrivai al manicotto. Ricucii con una spillatrice a pressione. Poi ci passai giri e giri di nastro adesivo. Feci un bel lavoro. Mi apprestavo a scendere, quando i cavi dell’argano, sballottati dal vento, s’intrecciarono e la piattaforma si bloccò. Giusto un piano sotto. Il vento mi martoriava la faccia e la pioggia incessante mi toglieva il respiro. Non ero in pericolo di vita, ma non fu un bel momento. Mi sedetti a terra, mi raggomitolai, con l’incerata ben stretta attorno al corpo e il cappuccio in testa. Strinsi le mani attorno alle ginocchia, ci nascosi la faccia e restai ad aspettare che tutto finisse.

E lo rividi, o meglio, lo riascoltai. La stessa frase: Sono un uomo, come te. Tra un po’ morirò, ma se vuoi posso rivivere in te. Rabbrividii, mi guardai attorno: solo acqua e vento. E le voci dei compagni, dieci piani sotto di me, a incoraggiarmi a tenere duro, mentre cercavano di districare i cavi. Rimisi la faccia sopra le ginocchia.
Di nuovo quella voce e quella frase.
Ero terrorizzato, non sapevo cosa fare.
Poi, per paura o per rabbia, cominciai a parlare con quella voce, come fossi un pazzo.
«Che vuoi da me? Perché riprendi a perseguitarmi? Pensavo che mi avessi abbandonato dopo quello che ho fatto.»
E nonostante la pioggia copiosa e il sibilo del vento, quel sospiro mi arrivò forte e chiaro: «Posso mai abbandonare chi ha più bisogno di me? Sarei mai Cristo se facessi questo?»
Scoppiai a piangere e tra i singhiozzi, in un moto di ribellione, gli risposi: «Allora sei Dio, non sei un uomo, se ti preoccupi tanto di un disgraziato come me. Perché in sogno, e anche adesso, mi sussurri quella frase? Perché?» Sentii un leggero alito caldo che mi carezzò il viso e le sue ultime parole prima di allontanarsi per sempre da me.
«Io sono un uomo. Vivo in ognuno di voi, per quello che sono riuscito a lasciare impresso nella memoria di ogni uomo. Abbandona il tuo rimorso. Hai sbagliato, e tanto. Ma nulla ti vieta di rimediare. Vivi la tua vita. Vivila da Angelo. Io te lo concedo, e non temere di sbagliare ancora. Anche gli Angeli possono sbagliare. Non dar retta alle vecchie storie, dimenticati di Lucifero: quella è roba vecchia, Antico Testamento. Nel Vangelo c’è sempre un’altra chance.»
Il vento si placò, la pioggia smise di colpo.
Alzai la faccia dalle ginocchia e lo vidi.
Sì, era sempre lui, con il viso imperlato di sangue e gli occhi infiniti di bontà. Era la stessa immagine che avevo sepolto insieme al mio peccato. Però d’improvviso mi sorrise e mi fece l’occhiolino.
Scomparve.
I miei compagni mi tirarono giù.

Non so come sia vivere da Angelo. Io ci provo. A volte è dura, a volte ho sbagliato e continuo a sbagliare.
Ma ho sempre cercato d’immedesimarmi negli altri.
Ho sempre perdonato ogni cosa, forse perché è l’unico modo di perdonare finalmente me stesso.

Certo di notte, da solo o al massimo in compagnia delle mie auto, è tutto più facile.
Ma di giorno, nella luce del sole, cerco disperatamente di portare un sorriso a chi soffre; e ogni piccolo, piccolissimo successo è una goccia di unguento che lenisce la mia ferita.
È un’altra piuma, leggera e minuta, che fa crescere le mie ali.

Ciro Pinto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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