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Angelicamente

Chi di noi non vorrebbe un angelo che si prenda cura di lui?
Al di là della sua valenza religiosa, l’angelo rappresenta la nostra intima esigenza di poter contare su una protezione.
Qualcuno in cui confidare, che possa assisterci, che possa darci una mano per rialzarci ogni volta che la vita ci spinge giù. Nel nostro immaginario gli angeli sono quasi sempre esseri sovrannaturali, espressioni estreme dei buoni sentimenti, figure nelle quali sublimiamo tutte le nostre aspettative. Per rimanere alle cose terrene, senza scomodare la fede, io penso che gli angeli siamo noi, sì, noi uomini, quando riusciamo ad interpretare nel modo più sublime quel poco di buono che abbiamo dentro.  E penso anche che il più grande angelo sia stato Gesù, che per me è stato soltanto un uomo, un grande uomo, che è riuscito quasi sempre a comportarsi da Angelo.

Eppure, spesso, mi piace immaginare che qualcosa d’improvviso scardini questa mia convinzione. Che un angelo vero possa apparire al mio cospetto. È quello che immagino nel primo racconto, Angelo, appunto. Qualcuno che ci possa ridare speranza anche nei momenti più bui della nostra vita.
In fondo, però, ognuno di noi può rappresentare una protezione per un’altra persona, e questa è davvero una cosa molto bella, difficile però da interpretare. Spesso, anche senza volerlo, tradiamo le aspettative degli altri che ci hanno eletto a questo ruolo così impegnativo. Ho cercato di parlarne in Odore di campagna.
A volte siamo noi a vedere spuntare le ali in qualcuno che per noi rappresenta un rifugio, un solido e accogliente approdo. Come il nonno del protagonista de Il trampoliere rosa.
Infine con Quel lunedì piovoso ho voluto sottolineare come ognuno di noi possa avere sentimenti buoni e nobili, anche quando proprio non sembra possibile. Certo, se poi un angelo viene a darci una mano…

Quel lunedì piovoso è un racconto inedito, Odore di campagna è pubblicato in e-book con Oakmond Publishing, gli altri due sono pubblicati nelle antologie dei concorsi letterari dove sono stati premiati.

Questi quattro raconti sono stati scritti all’incirca cinque o sei anni fa.

Ecco il secondo:

Odore di campagna
Ricordo il lavatoio ruvido di granito, l’acqua tiepida perdere calore, l’odore della pietra di sapone che si usava per lavare i panni. L’acqua schiumosa diventava sporca mentre noi tentavamo a tutti i costi di uscirne tra grida e brividi di freddo. Nostra madre faticava a tenerci, ma non desisteva. Sento ancora le sue mani quando ci strizzava ben bene con l’asciugamani, quello grande, tutto bianco e di spugna. Poi i pigiama, stinti e logori, tutti e due dello stesso colore.
E poi a tavola per la cena. Quasi sempre il brodo vegetale che, a sentire nostro padre, avrebbe risolto tutti i problemi del mondo,  e le frittelle di farina, unte di olio e di zucchero, mangiate a bocconi davanti a Carosello.
Infine a letto, non prima del bacio a papà, che ci rispondeva con un cenno burbero. I denti lavati nello stesso lavandino, e mamma che ci rimboccava le coperte, ci baciava la fronte, poi le guance, e pareva non contentarsi mai.
Così terminavano le nostre scorribande in cortile o nella campagna dove ci avventuravamo alla ricerca di ciclamini o di castagne.

Abitavamo lontano dal centro, in un palazzo con una grande aia che da un lato si apriva sulla strada asfaltata e dall’altro, dopo un arco in muratura e un grosso cancello, dava sulla campagna.
Tra le zolle appena smosse dall’aratro o lungo i sentieri invasi dagli arbusti, il grasso odore della campagna, dei suoi concimi, delle sue piante, s’infilava nelle narici ed è rimasto per sempre l’odore della mia infanzia.

Eravamo inseparabili Luca ed io, ci dividevano solo due anni ma quella piccola distanza bastava a nostra madre per affidarmelo: Bada a tuo fratello, diceva appena mettevamo il naso fuori dall’uscio di casa.
Sentivo l’orgoglio di essere più grande, il sottile piacere di avere sempre l’ultima parola, e la paura continua di sbagliare.
Il mio fratellino era un bambino tranquillo, con gli occhi grandi e un ciuffo ribelle. Lui era fiero di me. Ed io di lui. Ogni tanto mi chiedeva se fossi io il suo Angelo Custode.

Ricordo quel giorno, era appena autunno: una splendida giornata di ottobre, con l’aria frizzante, il sole ancora tiepido e tutt’intorno il giallo caldo delle foglie.
Dopo i compiti, Luca ed io corremmo in cortile a giocare con gli altri bambini finché non fece quasi buio e la terra, come noi chiamavamo la campagna, incominciò a divenire una macchia scura e misteriosa.
Decidemmo di rincasare, prima che le scale fossero troppo buie.
Piero spuntò all’improvviso davanti al cancello che dava in campagna, e con ampi gesti ci fece segno di seguirlo. Quel ragazzo non mi piaceva, avevo paura di lui. Era un tipo capriccioso e violento. Aveva dodici anni, tre più dei miei. Lo seguii, tenendo Luca per mano, intimorito ma incuriosito allo stesso tempo, e tutti e tre varcammo il cancello.
Piero era il figlio del colono, un brav’uomo che si spezzava la schiena dalla mattina alla sera. La terra era un piccolo appezzamento di terreno coltivato a ortaggi e frutta con in mezzo un gran pollaio, poi l’orto degradava a sbalzi che chiamavamo fossati, tutti pieni di vigneti e di verdure fino al confine inferiore dove c’era una stalla con tre mucche e un asino, e poco distante un porcile zeppo di maialini.
Ma non andammo fin laggiù, ci fermammo sulla spianata, subito dopo il cancello. Lui si accovacciò e prese a scavare con entrambe le mani.
Ero come rapito da quei movimenti veloci, graffianti, e il suo sguardo trasognato mi colpiva e incuriosiva.
Anche Luca pareva fremere dalla curiosità.
Ho sempre avuto una grande fantasia. Immaginai che sbucassero fuori dal terreno monete d’oro e gioielli preziosi, seppelliti da chissà quanto tempo, magari da un’antica famiglia che si affrettava a lasciare la propria terra per sfuggire a un’imminente catastrofe. Mi sembrò quasi di vedere l’uomo, probabilmente il capo famiglia, che ansimava e sudava con le mani tremanti per l’ansia e la fretta, che scavava la terra per nascondere il tesoro e nel contempo gridava e dava ordini alla sua donna di prendere i bambini e alla servitù di radunare le cose più necessarie, e di preparare i muli e i cavalli, perché bisognava andare, bisognava fare presto.
Non ti preoccupare, diceva alla donna che nel frattempo si era inginocchiata accanto a lui, torneremo a riprendere tutto. Ricorda anche tu, sono qui, sotto la quercia, proprio dal lato dove non batte il sole, tenendo la mano aperta sul terreno che ricopriva lo scrigno. Vedi? dove non batte il sole e con l’altra mano toccava il tronco della quercia e ne grattava il muschio. Poi con un lembo della camicia si terse la fronte madida di sudore e si precipitò in casa urlando: Presto, facciamo presto. Mi pareva quasi di sentire in lontananza dei rumori sordi: un’eruzione o forse solo colpi di cannone. Più giù, nella valle, dove ora c’erano dei bei campi da baseball, immaginavo una pianura sconfinata, dove torme di persone sui carri, a piedi, qualcuno a cavallo o in gobba ai muli, si affannavano a scappare, in un turbinio di grida, polvere e imprecazioni. E un bambino piccolo e gracile arrancare nella polvere e poi cadere e finire sotto le ruote dei carri.
Mi ricordo che ero come incantato da quella suggestione, quasi fosse vera.
Spesso mi assentavo con l’immaginazione e capitò anche allora. Luca mi toccò il braccio, come per svegliarmi. Mi scossi, lo guardai, aveva gli occhi dilatati dal terrore.
Piero aveva scavato il suo bel fosso e, scrollandosi la terra dalle mani, alzò la testa e ci fissò con uno sguardo diabolico: «Guardate!» Non capii subito di che cosa si trattasse, complice il buio ormai fitto, ma dallo sguardo di mio fratello compresi che doveva essere qualcosa di spaventoso. Nella buca si intravedevano solo delle macchie più chiare, Non capivo cosa fossero. Allora Piero mi prese le mani e me le posò nel fosso, toccai qualcosa di rigido e inerte, ma non capivo ancora. Allora mi piegai fino ad arrivare con il viso sull’orlo della buca e finalmente vidi.
Tre cuccioli di cane appena nati.
Morti.
«La cagna ha figliato e io non voglio altri cani.»
Aggiunse che li aveva sotterrati vivi e disse che era stato molto bello.
Mi venne da piangere, ma mi sforzai di non farlo, non potevo davanti a mio fratello. Tirai su con il naso, non avevo mai saputo che da morti non si è più caldi e morbidi al tatto, lo scoprii allora. Provai una pena terribile per quei poveri cagnolini e odiai il figlio del colono con tutte le mie forze.
Luca mi guardava smarrito, aveva gli occhi pieni di lacrime. Tentò di toccare anche lui i poveri cuccioli. Glielo impedii, gli afferrai la mano e lo trascinai via. Dietro di me sentivo gli sghignazzi di Piero.

Nel buio delle scale ci tenemmo per mano. Gli feci promettere di non raccontare quella brutta cosa alla mamma. Non possiamo fare la spia, dissi più a me stesso che a lui.
La notte lo sentii piangere, un gemito sommesso e schiacciato dalle lenzuola dove si era rintanato. Mi avvicinai, cercai di confortarlo e gli dissi di non pensarci più. Ma quella notte non dormii.

E da quel giorno Luca non fu più lo stesso.
Persino nostro padre se ne accorse. Lui, che in casa non c’era tutto il giorno. Era in giro dall’alba al tramonto, lavorava sodo. Conosceva tutti gli indirizzi e tutte le famiglie del quartiere, come un segugio non mollava la presa finché non consegnava le sue lettere. Spesso mangiando una frittella si compiaceva dell’ultima impresa, tipo un destinatario sconosciuto raggiunto in un posto dimenticato da Dio.
Un portalettere che si rispetti non ha mai resi nella sua borsa, sentenziava a volte con i piedi nella bacinella dove mamma riversava acqua calda e sale.
Con noi era burbero, ma i suoi occhi brillavano quando prendevamo un buon voto a scuola.
Un pomeriggio mi prese in disparte e con un tono che non ammetteva repliche mi disse che era certo fosse successo qualcosa a Luca, che io ne ero a conoscenza e avevo il preciso dovere di riferirglielo. Balbettai che non ne avevo idea, che non sapevo niente.
Mentii.
Ancora oggi mi chiedo se fosse stata la paura di Piero o una sorta di omertà dettata da quelle regole (sbagliate) che governano il mondo dei bambini, regole che non prevedono di fare la spia.
Nostra madre cercava in tutti i modi di spingerlo a sorridere, non si capacitava che il suo bambino, sempre così sereno e allegro, fosse divenuto cupo e silenzioso.
Anche con me era diverso. Non pendeva più dalle mie labbra, e quando mi guardava non leggevo più l’ammirazione nei suoi occhi. Quando mamma, avvilita ed esausta dopo tanti tentativi inutili, sbottò con tono alterato: «La vita è un dono. Torna a sorridere, altrimenti il tuo Angelo Custode ti abbandonerà.»
Lui alzò lo sguardo verso di me e rispose acido: «Gli Angeli Custodi non esistono.»
La nostra cameretta di notte non era più la stessa. Dal suo lettino provenivano gemiti e lamenti. Io restavo con gli occhi sbarrati a guardare il soffitto e tutte le ombre si trasformavano nei corpicini duri e freddi di quei cagnolini soffocati dalla terra che il padre di Piero curava ogni giorno.
Mi tormentavo con il dubbio che avessi dovuto parlarne ai miei ma non mi decidevo a farlo né a riporre quel fatto come un brutto momento ormai passato. In pratica non feci niente, e la mia immagine di fratello maggiore, di Angelo Custode, sbiadiva sempre di più agli occhi di Luca.

Fu invece lui a fare qualcosa.

Come sempre, alla fine delle lezioni lo aspettavo nel cortile della scuola per poi rientrare insieme. Ma quel giorno non mi venne incontro né se ne restò in disparte come faceva ormai da quando era accaduto il fattaccio. Quel giorno Luca se n’era andato senza farsi vedere da me.
Ma dove era andato?
Deluso e preoccupato m’incamminai frettolosamente verso casa, e quando mia madre fece una smorfia di stupore nel vedermi da solo capii che non era rientrato.
Tornai con lei a scuola, chiedemmo a qualche suo compagno, alla maestra. Tutti lo avevano visto uscire, tutti lo avevano immaginato con me.
Mia madre aveva lo sguardo ansioso come quando uno di noi aveva la febbre, ma non diceva nulla, aveva le labbra serrate.
Le raccontai tutto, persino della scena che avevo immaginato, della gente che scappava da un evento funesto. Riuscii a complicare talmente le cose che mamma non capì niente. Dovetti ripetere e attenermi semplicemente ai fatti.
Inorridì, poi sussurrò soltanto che avrei dovuto parlarne. Guardava l’orologio in continuazione ripetendo sommessamente: Adesso arriva, vedrai, adesso arriva.
Ero disperato. Mi allontanai da lei e scoppiai in lacrime.
Luca, dove sei? la domanda mi rimbombava nel cervello e mi faceva rabbrividire.
Andai in cucina, mi affacciai nel cortile. Dai vetri socchiusi delle finestre uscivano aromi caldi e invitanti insieme alle voci dei nostri compagni, appena tornati da scuola.
E lui invece…
Annusavo gli odori del mosto che provenivano dalla cantina dove il padre di Piero teneva le botti di vino, l’odore della terra umida al di là dell’arco in muratura che separava la campagna dal cortile.
Aguzzai gli occhi: sotto l’arco, un bambino gracile, vestito in modo strano, agitava una mano verso di me. Sì, faceva proprio segno di scendere e pareva un gesto che non lasciava alcun dubbio: dovevo fare presto.
Era lui, era quel bimbo che avevo visto con la mia fantasia, quel bimbo schiacciato dalle ruote di un carro.
Scesi di corsa inseguito dalle grida spaventate di mia madre.
«Vado a cercarlo», le dissi di rimando, «forse penso di sapere dove sta.»

Arrivai a un palmo dal bimbo misterioso. Mi sorrise e s’incamminò nella campagna.
«Chi sei? Vuoi che ti segua? Sai dov’è andato Luca?»
Non rispose, superammo l’ampio spazio pianeggiante tra il pollaio e gli alberi di fichi, scansammo la fossa dove giacevano i cuccioli: era scoperta ed era vuota.
Poi cominciammo a scendere i fossati.
Ero frastornato. Mi domandavo chi mai fosse quel tipo e come poteva essere lì se prima era solo nella mia mente. Ma di una cosa ero sicuro, mi avrebbe portato dal mio fratellino.
Fra castagne, foglie secche e splendidi ciclamini arrivammo quasi giù in fondo, già s’intravedeva la rete metallica che separava la campagna dai verdeggianti campi di baseball della base Nato di stanza nella nostra città.
Il sentiero diventava sempre più ripido e la vegetazione più fitta. Al di là delle reti di recinzione c’erano dei giocatori di baseball nelle loro divise colorate che giocavano, li sentivo gridare entusiasti nella loro lingua per me astrusa e affascinante.
Quello strano bambino si pose proprio davanti a me, mi sembrò ancora più esile ed emaciato, aveva un pallore incredibile. Lo guardai senza riuscire a parlare per un minuto che mi parve non passare mai. Poi, lentamente, mi si avvicinò, si alzò sulle punte, mi carezzò una guancia e scoppiò in lacrime.
«Dimmi, chi sei? Cosa è successo? Perché piangi?»
«Io non sono più. Ho vissuto tanti anni e anni fa. Ho vissuto pochissimo tempo, ero come mi vedi ora. Ero così, quando sono morto, schiacciato dalle ruote di un carro.»
«Lo so, ho assistito alla scena» mi sorpresi a rispondergli senza alcun cenno di meraviglia per quell’affermazione.
«Il vulcano eruttò dopo secoli. Eravamo una famiglia felice. Mio padre fece di tutto per metterci in salvo e ci riuscì con mia madre e i miei fratelli. Io non ce la feci. Sfuggii alla mano di mia madre, correvamo tutti. Sembrava una scena apocalittica, fui preso dal panico quando mi resi conto di averli persi di vista. Ero smarrito e impaurito. Poi quel carro…»
Abbassò la testa, poteva avere l’età di Luca. Ma aveva qualcosa d’indecifrabile che lo rendeva speciale.
«Parli bene, molto bene, non sembri un bambino.»
Sorrise con timidezza: «In fondo ho quasi quattrocento anni.»
«Di quale vulcano parli e di quale eruzione?» chiesi ormai attonito.
«L’eruzione del Vesuvio, del 1631. Io abitavo su questa collina. La nostra casa era in questa campagna, dove ci siamo incontrati. Guarda, li vedi i campi di baseball? Prima era un’enorme distesa pianeggiante, piena di corbezzoli, acacie, e, verso il mare, anche di pini e di ulivi. È di lì che siamo scappati per cercare di arrivare al mare di Coroglio: l’acqua poteva salvarci dai lapilli di fiamma e cenere.»
Ero annichilito. Avevo nove anni, quel fatto sarebbe stato astruso per chiunque, figurarsi per me. Lo guardai meglio. Aveva dei pantaloni stretti alle ginocchia e una casacca scura, di tela grezza di sacco, tutta lacera. I piedi erano scalzi. Mi sorpresi a chiedermi come facesse a non avere freddo.
D’improvviso mi ritornarono alla mente Luca e la sua scomparsa. Mi prese un tremito di ansia.
«Perché mi hai fatto scendere? Perché siamo venuti fino ai campi degli americani? Cosa vuoi da me?»
«Ah, mi chiamo Gervasio. Quando sono morto avevo sette anni come tuo fratello.»
Abbassò di nuovo lo sguardo, percepivo che avesse qualcosa da annunciarmi ma che provasse disagio a farlo.
Si girò di nuovo verso il perimetro di gioco, come se volesse nascondersi al mio sguardo, come se volesse procrastinare il momento della sua rivelazione.
Persi il controllo. Pensavo a Luca, tutto il resto, tutte quelle stranezze non mi colpivano nemmeno un po’. Avevo solo la smania di ritrovarlo. Lo scossi per le spalle: «Dimmi, sai qualcosa di mio fratello? Dimmi!»
I suoi occhi diventarono umidi e spauriti. Sospirò e poi riprese a parlare: «Avevo intuito il pericolo che stavate correndo, quella volta che guardavate nella fossa. Sapevo che Luca se ne sarebbe fatta una malattia, che avrebbe perso il sorriso.»
Lo guardai esterrefatto.
«Mi mostrai a te, quando con la fantasia arrivasti a vedere la scena dei miei che si preparavano alla fuga; volevo avvisarti di scappare via, di portare Luca lontano dai quei poveri cuccioli. Ma non ho fatto in tempo. Quel maledetto carro mi lascia sempre e solo pochi attimi.»
«Che gli è successo? Se sai qualcosa, dimmela.»
«Eccolo, guarda.»
Seguii con lo sguardo l’indice della sua piccola mano che indicava un punto oltre la rete. Luca era lì, giocava con i tre cuccioli: li accarezzava, li prendeva in braccio e li sbaciucchiava. Stropicciai gli occhi. Sì, era proprio lui.
Incredibile, pensai.
«Visto? Ora è felice. E non a tutti tocca questa buona sorte. Io ho solo alcuni giorni in cui sono libero, come oggi. In altri ho pochi attimi prima che il carro mi schiacci. Forse pago le colpe di mio padre, di quei denari rubati ai poveri coloni. Forse se non si fosse attardato a nasconderli in quella maledetta fossa, saremmo scappati prima, forse sarei sopravvissuto. Invece Luca è sempre libero, lui non ha colpe da scontare, né sue né di altri.»
«Vuoi dire che è morto? Come te?»
«Sì.»
Mi accasciai a terra e piansi in un tremito convulso.
Sentii sussurrarmi all’orecchio: «Luca non ti lascerà mai. Ha chiesto di essere il tuo Angelo Custode.»
Restai così, immobile, non so più quanto tempo. Quando mi rialzai, oltre la rete non c’era più nessuno. Non c’erano i giocatori di baseball, non c’era Luca con i tre cuccioli. Anche Gervasio era scomparso.

Risalii all’impazzata la scarpata, incurante degli arbusti e dei rovi che mi graffiavano le gambe. Arrivai a casa trafelato.
Mia madre era abbracciata a mio padre; appena mi scorse si divincolò e corse verso di me. Mi strinse forte, quasi da farmi male. Sentivo il suo petto sconquassato dal pianto. Mio padre ci raggiunse e ci strinse entrambi, anche lui piangeva.
Compresi che Luca era morto, davvero.

Vivere senza di lui, senza i suoi passi che si affrettavano a seguire i miei, è stata dura. Fare a meno per sempre del suo sguardo dolce e delle sue risate è stata una violenza che sentivo stritolarmi il cuore.
La mia mente spesso è andata a quel dilemma che non mi ha più abbandonato: se ne avessi parlato più a lungo con lui, se avessi informato i miei di quel fatto raccapricciante, forse non avrebbe covato dentro tanto dolore.
Chissà!
Ora che la mia vita è trascorsa in buona parte, so che il mio fratellino è sempre stato al mio fianco. A volte ho sentito il suo respiro leggero, a volte nella mia rabbia ho colto il suo sguardo dolce e mi sono ammansito.

Luca, appena uscito di scuola, si era inoltrato lungo un pendio che costeggiava la collina. Non abbiamo mai saputo se si lasciò andare o inciampò, ma di sicuro precipitò. Il suo corpicino fu trovato mentre io lo guardavo giocare con i cuccioli oltre la rete.

Ciro Pinto

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